venerdì 25 agosto 2017

Presentazione del romanzo "L'altra faccia della scimmia." Di Vincenzo Maria D'Ascanio.


“L’altra faccia della scimmia” è un romanzo ambientato in un arco di tempo che va dalle lotte studentesche degli anni 60' sino ai nostri giorni. Sono le vicende di uno studente di Medicina che, per pagarsi gli studi, si arruola nell'Esercito Italiano.

Nonostante sia diventato medico, il “ragazzo” non riesce ad abbandonare del tutto la vita militare, trovando nei suoi colleghi quella famiglia troppo presto perduta. Il libro è un'alternanza di episodi tra il passato ed il presente con un comune denominatore, la linea sottile che divide il confine tra la vita e la morte.

Descrivendo con puntualità le distorsioni, la corruzione e gli sprechi del sistema sanitario, e l'oscuro mondo del crimine internazionale, il protagonista dovrà affrontare il dualismo tra la  professione medica,  ed suo ruolo d’incursore, che lo vedrà impegnato soprattutto nei Balcani e nell'immenso continente africano.


L’autore. Carlo Antonio Sozio nasce a Milano il 27/12/1951. Si laurea in Medicina e Chirurgia a Pavia e consegue tre specializzazioni. Ha svolto la sua attività professionale nel settore pubblico e privato. Attualmente svolge l’attività del libero professionista.

Vincenzo Maria D'Ascanio

Una domanda che non avrà risposta


Oggi sono di nuovo ritornato alla vita normale, quella di tutti i giorni, quella coi soliti problemi quotidiani che in questi momenti mi danno una sensazione di serena tranquillità. Ho lasciato alle spalle la Slovenia, come ho sempre fatto con tutte le altre missioni. Mi sprofondo in questa quotidianità che ha sicuramente tanti difetti, ma anche moltissimi pregi, anche se talvolta non riesco a apprezzarli.
Ormai non mi pongo più la domanda: “Come può un militare dei reparti d'assalto, capace di uccidere a sangue freddo, indossare nuovamente i panni di un medico?”

Sono una personalità bipolare, uno psicotico parzialmente compensato? Una domanda senz'alcuna risposta, almeno, non ne ho mai trovato nessuna valida. Per questo ho deciso di lasciar perdere, a conti fatti, sono molto più sano di molte persone, sopratutto di alcuni colleghi della sanità.


Sto percorrendo una strada che scorre tra le risaie col sole che, basso sull'orizzonte, sembra emanare lampi arancioni che si riflettono sull'acqua, che sta cominciando ad inondarle. Sono diretto in clinica. Il lavoro è sempre più duro, anzi, il termine è inesatto, sconfortante è la definizione più consona. Sono ormai stato degradato ad essere solo ed esclusivamente una mera macchina per la produzione ed il profitto, come in una catena di montaggio, dove il termine qualità è solo utopia e la professione medica si è trasformata in qualcosa di molto diverso, da ciò che avevo immaginato. Mi consola il fatto che sono ancora qui, che posso permettermi di lamentarmi, di non essere contento. Un grande lusso, il cui significato si racchiude in una sola frase: sono ancora vivo.

Incursione in Slovenia


Ripercorremmo lo stesso tragitto di qualche minuto prima e ci posizionammo sul retro. Dopo pochi secondi il fragore delle granate che infrangevano le persiane delle finestre riempi il silenzio, dunque armi in pugno ci precipitammo verso i due ingressi del casolare. Aperta una delle vecchie porte con un poderoso calcio lanciammo quattro granate all'interno ed aprimmo il fuoco con le armi automatiche provviste di silenziatore.
"Cerchiamo di prenderne almeno uno vivo," gridai, "abbiamo bisogno di saperne di più!"

Gli altri, posizionati sul lato nord, corsero verso l'ingresso principale che improvvisamente si aprì: uscirono diversi uomini che correvano e sparavano coi loro mitra. Riuscirono a compiere solo alcuni passi. Furono falciati ancor prima di trovare riparo dietro le loro auto. Quell'inferno durò solo un paio di minuti, dunque il silenzio.L'aria era intrisa dell'odore di polvere da sparo e, quando si diradò il fumo, scorgemmo all'interno della stanza quattro corpi. Mentre Robert mi copriva, raggiunsi la vecchia scala di legno che portava al piano superiore. Lentamente salii i gradini, sentivo solo il rumore delle assi di legno che cigolavano sotto i miei passi.

Trovai altri mobili bruciati e cinque corpi devastati dalle potenti granate, ma improvvisamente sentii lieve un lamento. Nascosto da un tavolo rovesciato giaceva un uomo con una ferita all'addome. Quando mi scorse tentò con uno sforzo disperato di alzare il mitra, ma fui più veloce e col piede gli immobilizzai il braccio, con un calcio allontanai l'arma.
"Non ne hai per molto, ma quel poco che ti resta sarà molto doloroso. Rispondi alle mie domande e farò  in modo che tu smetta di soffrire."
Con la voce strozzata, comprimendosi con le mani l'addome, mi chiese: "Cosa vuoi sapere, io..."
"Chi vi ha detto del nostro piano? Chi ci ha tradito?"
"E' stato Korky Slabadov, il proprietario di quella locanda a Luvna."  Poi un colpo di tosse lo lasciò senza fiato.
"Si è fatto comprare, non è nemmeno costato caro. E' tutto quello che so, aiutami..."

"Morirai comunque, indipendentemente da me. Hai perso troppo sangue, al massimo ti resta un'ora, forse due. Fidati, sono un medico, m'intendo di certe cose. Se vuoi posso mettere fine alle tue sofferenze. Cosa vuoi che faccia?
"Va bene, va bene, dammi due minuti, solo due minuti..." Attesi pazientemente. Le sue labbra si muovevano, probabilmente pregava per la sua anima. In quel particolare momento fui attraversato da un pensiero. Chissà se qualcuno lo stava ascoltando... Sollevai il fucile a pochi centimetri dalla sua testa e premetti il grilletto. Un qualcosa di amaro e di acido mi salì alla bocca, inspirai profondamente, chiusi gli occhi e cercai di immaginare il mare azzurro, una barca, il sole. Pochi secondi, poi riaprii gli occhi con l'assurda speranza che tutto fosse solo un terribile sogno, e non un'orribile realtà.


giovedì 24 agosto 2017

Storie di ordinaria follia nella sanità pubblica


Era stata da pochissimo tempo inaugurata una nuova base per il servizio di elisoccorso. Alla direzione era stato preposto il primario del servizio di anestesia e rianimazione di un vicino ospedale. La maggior parte dell’attività che sarebbe stata svolta, avrebbe interessato la copertura del territorio montano ed i conseguenti collegamenti con le strutture del territorio, comprese quelle che si trovavano in pianura. 

Ero stato uno dei primi ad essere contattato. Assurdo ed incredibile nello stesso tempo, anche in questa occasione l'improvvisazione era notevole, anche se il servizio sarebbe dovuto essere di alto livello. Il personale medico ed infermieristico non era stato addestrato, e non era stato sottoposto ad alcuna valutazione d'idoneità al volo. Ero l'unico che, per altri motivi, aveva volato su un elicottero.

Tra i componenti di quella  task-force, alcuni soffrivano di mal d'aria, altri di vertigini. Si può immaginare la qualità dell’intervento, quando medico o infermiere erano chiamati ad operare  in una procedura di recupero. Ancora oggi mi domando come abbiano fatto quelle guide alpine, componenti dello staff, a sostenere una tale situazione. Erano delle persone assolutamente dedite al sacrificio.

Solo parecchi mesi dopo si avvertì la necessità di eseguire corsi specifici di preparazione per gli operatori ed istituire criteri, più o meno validi, di valutazione e d'idoneità. Sulla carta si era già fornito un servizio di eccellenza. Poco importava se la qualità fornita fosse scadente ed i costi stratosferici: il target, quello di sempre, era vendere fumo per ottenere consensi e, anche questa volta, era stato pienamente raggiunto. Significativo era ciò che avevo riscontrato già nel primo turno del servizio: mancava l’ossigeno, la nostra check-list non prevedeva che fossimo provvisti di bombole d'ossigeno. Non si parla di un accessorio di cui si può fare a meno, magari riuscendo a tamponare la situazione in qualche modo.

E’ un presidio indispensabile per poter effettuare le manovre rianimatorie. Quando feci presente al responsabile il problema, questi s'infuriò e mi disse: "Devi proprio sempre rompere le scatole? La maggior parte degli interventi sono in alta quota. Non sai che gli atleti vanno ad allenarsi in montagna per migliorare le loro prestazioni di tenuta? E sai il perché? In montagna c’è più ossigeno,  quindi è inutile che ci portiamo dietro una bombola!"

Rimasi impietrito. Quell'illustre primario non sapeva che gli allenamenti in quota servivano ad aumentare il numero dei globuli rossi e, pertanto, la percentuale di emoglobina nel sangue. Più si sale ad alta quota, più diminuisce la quantità d’ossigeno nell'aria che respiriamo, esattamente il contrario di quello che asseriva quel luminare. Ero incredulo dinanzi a quanto avevo sentito, ma questa, era la realtà culturale di quella classe medica. La stessa classe medica che giudicava gli altri, quella che nominava i primari, gli apicali, coloro ai quali era affidato il compito di salvaguardare la salute del cittadino. Follia?

No, sempre la solita musica, l'interesse di pochi a qualsiasi prezzo, anche la vita del prossimo. Quel signore era Primario solo per un motivo, l'essere in grado di procurare un numero cospicuo di voti elettorali, la capacità professionale non contava nulla. La solita minestra: potere politico, interessi economici, sudditanza.


Un incontro insperato


I giorni passavano tra il disprezzo e lo strano rancore dei colleghi. Neanche a dirlo, invece, ero sempre più apprezzato dai pazienti. Persona strana, così ero definito, ma alla quale era riconosciuta una professionalità ed una umanità che non avevano nulla a che fare con quel contesto.

Il bar dinanzi all'ospedale era un punto di riferimento per le mie sporadiche incursioni serali. Vi passavo di sfuggita dopo il turno. Una sera chiesi al barman, il figlio della padrona, un Negroni. Con aria molto professionale costui, dopo aver interrotto una filippica calcistica rivolta ad un avventore, ed aver esaminato con attenzione e ripetutamente le bottiglie allineate sugli scaffali alle sue spalle, disse: "Mi spiace dottore, non ce l’ho. Posso darle un Aperol, ma stia tranquillo, domani mattina lo ordino." Detto questo, ricominciò la sua diatriba con l’avventore ormai completamente ubriaco. Mai un discorso diverso dal calcio, dal gossip, dalla caccia. Del resto, cosa mai ci si poteva aspettare da quel posto e da quella gente?

La maggior parte delle conversazioni riguardano il nulla, e l'assenza di profondità aumenta esponenzialmente se uno dei partecipanti commetteva l'errore di parlare di qualcosa di un po' più serio del risultato dell'ultima partita del campionato di calcio... Nonostante questo ed altri aspetti, non erano poi così male; in fondo erano ciò che erano, non mentivano.

Un giorno, rubando il tempo e la vita, come  ero solito pensare, riuscii a convincere quella ragazza ad accompagnarmi all'università. Dovevo ritirare dei documenti in segreteria che riguardavano la mia specializzazione. Di certo furono complici la giornata stupenda, riscaldata dai raggi di un sole che pareva cullarti e spingerti ad osare oltre quanto avresti voluto, con l’aria che t'inebriava e sembrava sussurrarti che il mondo era tuo. In quella cittadina medievale, camminando e tenendoci per mano come due ragazzini sorpresi dal primo amore, riscoprii la gioia di vivere e la speranza nel futuro.

Per la prima volta osai, anche se sommessamente, confessare le mie pene per un'adolescenza non avuta, l’essermi allontanato dalla famiglia e la solitudine che mi circondava. Le parlai mentre ci trovavamo in una graziosa piazzetta, contornata sui quattro lati da un porticato. Dopo tanti anni riuscii a parlare con la massima sincerità, e quella donna mi ascoltò. Dunque mi strinse a sé, e mi baciò sulla bocca in un modo nuovo, che sino ad allora non avevo mai avevo sperimentato. L’aveva capito: desideravo condividere con lei la mia vita, e cominciai a vedere il bicchiere mezzo pieno, non come l’avevo sempre visto, eternamente e paradossalmente mezzo vuoto.

Nei panni dello studente


Nonostante le difficoltà legate al mio ruolo nell'esercito, ero riuscito ad organizzarmi discretamente. Quando non ero operativo, terminato l'addestramento giornaliero, mi ritiravo negli alloggiamenti a studiare.

Nonostante fossero ricavati presso strutture militari o similari, dove temporaneamente venivamo ospitati, anonimi e defilati, riuscivo quasi sempre a trovare un posto tranquillo, dove poter preparare gli esami. Nemmeno il durissimo allenamento che quotidianamente effettuavamo e che, data la nostra ubicazione spesso improvvisata, comportava sovente spostamenti notevoli, era riuscito a distogliermi dal mio obiettivo, ovvero la laurea in medicina.

Quando la fortuna mi faceva trovare nelle vicinanze di qualche città universitaria, trovavo il tempo di frequentare lezioni e corsi. Nei periodi di licenza, dedicavo tutto il mio tempo per recuperare le lezioni che avevo dovuto forzatamente disertare. Ero però sotto i riflettori di tutti.

A dispetto della moda di quel tempo, ove il portare i capelli lunghi era il primo segno di appartenenza alla contestazione, io, che li portavo a zero, mi vedevo costretto a dribblare domande curiose su quelle mie comparse saltuarie, intervallate da lunghi periodi di assenza, fatta eccezione per le sessioni d'esame. A fatica, quasi violentandomi psicologicamente, riuscivo a sopportare i discorsi dei compagni di corso, che spesso trattavano di problemi politici e sociali. Questi scambi d'opinione  si concludevano con feroci critiche rivolte allo Stato ed ai suoi rappresentanti, tanto che, più di una volta, dovetti trattenermi dal dir loro la mia opinione, magari con un linguaggio non proprio formale.

Trovavo facile lanciare proclami più' o meno rivoluzionari che avrebbero cambiato in meglio il mondo, e ritenevo fosse ancor più facile, comodo ed ipocrita, giudicare senza far nulla di concreto per eliminare il marcio della nostra società, magari per rimanerne legati e sfruttare una situazione privilegiata, non appena questa si presentava. Le parole costano di certo meno dell’agire.

Tutti gli esami che sostenevo non costituivano per me un particolare stress. Erano invece un momento di gioia e felicità, un qualcosa che mi rilassava, che in qualche modo mi faceva tornare ad una vita civile, forse un po' grigia, senza alti e bassi, ma di certo meno stressante. Mi ritrovavo a camminare tra i vicoli dei padiglioni del Policlinico, contento di trovarmi in quei luoghi, felice di dover sostenere quegli esami, forse, senza volerlo ammettere a me stesso, contento di essere ancora vivo.

Colleghi ripugnanti nel blocco operatorio



Per un puro e fortuito caso, mentre ci trovavamo nei servizi dove si fumava furtivamente, durante una chiacchierata sulle problematiche del blocco operatorio e sui problemi di relazione con la direzione amministrativa, la sua vera indole venne a galla, ammesso e non concesso che fosse necessaria un'ulteriore prova. Improvvisamente si senti la mia voce provenire dalla tasca del suo camice. Per qualche secondo rimasi esterrefatto, mentre lui estraeva un registratore che riproduceva ciò che avevo detto negli ultimi dieci minuti. lo guardai. Il mio volto non esprimeva più sorpresa, solo disprezzo. Tentò  di giustificarsi. Con quel fare mellifluo da prete di periferia, mi disse che quel registratore intendeva usarlo durante il colloquio che avrebbe avuto il pomeriggio con la direzione sanitaria, poiché non si fidava del direttore, che guarda caso era suo intimo amico. Infine, disse che la registrazione era partita accidentalmente!

In quei tempi i rapporti con la direzione amministrativa erano particolarmente tesi. S'era vero che il numero degli interventi non aveva subito una decrescita, era altrettanto vero che la regione aveva abbassato la quota di rimborso, dunque da parte della direzione amministrativa c'era una spinta ossessiva ad incrementare il numero degli interventi chirurgici per pareggiare la perdita economica.

Niente di male nell'ottica amministrativa, se non fosse che il numero degli anestesisti era insufficiente a coprire non solo un'ulteriore carico di lavoro, ma anche quello che già c'era. Inoltre, non era mai stata fatta una richiesta per aumentare l'organico, solo e soltanto perché questo dirigente non voleva dividere con un'ulteriore persona la quota che proveniva dai pazienti paganti.

"Scusa, ma se questa era la motivazione di usare quell'apparecchiatura, ed anche in questo caso non sono assolutamente d'accordo, perché non l'hai detto subito?"
"Ma no, guarda..." balbettava.
"Devi scusarmi, scusami", un uomo di coraggio, pallido in viso, la fronte imperlata di sudore.
"Ah, non ti è venuto proprio in mente d'informarci," parlavo al plurale, anche se sapevo benissimo che l'altro collega si sarebbe ben guardato dal proferire parola.
"Quindi non ti è venuto in mente... e a che cazzo devi pensare? Sei una persona così oberata da responsabilità e pensieri?" Dissi quasi stringendo i pugni dalla rabbia.
"No, ascolta, mi devi credere, non volevo certo registrarti!"   
"Sei uno stronzo, e di quelli grossi. Mi verrebbe voglia di prenderti a cazzotti e stamparti sul muro di quella sala operatoria!"

Lo lasciai con l'altro collega che non aprì bocca, come avevo ben supposto. O era una merda ancora peggiore perché pensava solo a se stesso, oppure era d'accordo, ancor peggio... questo era il mio unico pensiero, mentre rientravo nel blocco operatorio. Del resto poco tempo prima questa stessa persona aveva imbastito una commedia tragicomica degna del miglior Toto' per il suo contratto di lavoro, che rischiava di non essere rinnovato. 


mercoledì 23 agosto 2017

L'azione definitiva


Avevo la mano sinistra sul corpo del fucile, le dita della mano destra avvolgevamo il castello. Sentivo la pressione del calcio poggiato alla spalla. Respiravo lentamente ed osservavo la scena. Anche tutti gli altri erano nella medesima posizione. Avevano già stabilito quali fossero i loro bersagli nella pianificazione rivista qualche ora prima. Solo Marco aveva assunto una posizione defilata; il suo compito era di copertura, sarebbe intervenuto nel caso le informazioni relative all'incontro non fossero state corrette, o fossero sopraggiunti imprevisti.

Ora inquadravo l'obbiettivo, l'uomo sceso dall'auto con la valigetta, che aveva appena finito di porgere il saluto a due individui col rituale del doppio abbraccio. Era giovane e distinto. A vederlo così, a prima vista, se qualcuno  l'avesse  incrociato per caso nel centro di una cittadina, avrebbe sicuramente pensato che fosse un manager. In realtà era il fratello più giovane del capo di un importante cartello del traffico di armi, di origine slovena. L'ordine era di eliminarlo ed eliminare tutti coloro che in quel preciso momento fossero stati presenti. Un'occasione del genere non si sarebbe ripetuta. Quella gente non era facilmente intercettabile.

Non mi domandavo perché non si potesse arrestare, non spettavano a me simili decisioni. Ero un militare anche se eseguivo compiti, diciamo, fuori dalle righe. Non mi piaceva, ma l'avrei fatto, come tante altre volte. Come non mi piaceva fare alcune cose nel mio ruolo di medico, avrei obbedito agli ordini senza battere ciglio. 
Ora nella croce del mirino c'era proprio la radice del naso del giovane con la valigetta. Le dita della mano destra si tesero, l'indice morbidamente si poso' sul  grilletto. 
Inspirai, espirai.

I muscoli della mano si contrassero.

Un rumore sordo e l'uomo crollò a terra con un foro in mezzo alla fronte. Qualche millesimo di secondo, altri rumori tonfi dovuti ai silenziatori delle armi. Con l'utilizzo del cannocchiale potevo vedere quattro macchine, un po' di polvere ed i corpi di quegli uomini stesi a terra, immobili.

Diedi l'ordine di avanzare. Ormai era quasi buio, c'era un silenzio surreale e l'aria cominciava a farsi fredda. Gli uomini si erano disposti in posizione attorno alle auto ed ai corpi. Consegnai il mio fucile a Robert, presi la Beretta dalla fondina, avvitai il silenziatore ed assestai il colpo in canna. Mi avvicinai ai corpi ed esplosi un colpo alla testa di ciascuno. Robert intanto aveva recuperato la ventiquattr'ore. Un breve sguardo intorno.
"Ok andiamocene, qui abbiamo finito."

Il dirigente e l'infermiera


Non importava se qualcuno dei suoi collaboratori, non fosse all'altezza di esercitare la professione: l'unico fattore decisivo era che fossero il suo occhio e il suo orecchio, sempre.

Non l'avevo mai visto una volta sola lavorare sul serio. Occupava stabilmente la poltroncina della scrivania in guardiola, davanti ad un computer ove, dopo aver scoperto che esisteva la posta elettronica, passava ore a prenderne visione. In alternativa era alle prese con la stesura degli orari di servizio, compito gravosissimo come spesso lui lo descriveva. Tutto questo nel poco tempo dedicato al blocco operatorio. Dove trascorresse il rimanente non si sapeva, anche se si poteva facilmente intuire.

Una frase ricorrente degna di quel personaggio era: "Che ognuno si prenda la sua responsabilità, altrimenti la direzione mi fa il popò." Era un vero leader carismatico. Nel gruppo dei suoi collaboratori c'era una persona non più freschissima negli anni, che mi destava una compassione tremenda. Sotto l'aspetto mentale non era certo una cima, anzi. Tuttavia viveva per quella sala operatoria. Non aveva amici o parenti, aveva sempre lavorato lì da quando era arrivata da un paesino del sud. Di aspetto deliberatamente trascurato, si esprimeva in un italiano degno di un personaggio di Verdone. Tuttavia era un'instancabile lavoratrice, e non svolgeva solo le mansioni pertinenti al suo ruolo. 

A mio parere il diploma d'infermiera le era stato regalato al suo paese. Faceva di tutto e di più, dalla pulizia della sala operatoria a quella dei servizi igienici. Sempre la prima ad arrivare, alle sette del mattino, e l'ultima ad andarsene dopo le nove di sera. La si poteva incontrare anche il sabato e la domenica, pur non essendoci alcuna attività operatoria. Considerava quel luogo come la sua unica ragione di vita, e temeva sempre di esserne allontanata.

Il coordinatore, questo era il titolo di cui si fregiava quel signore anche se non l'aveva mai acquisito, era ben consapevole della situazione psicologica di quella sua collaboratrice, ed in modo meschino ne approfittava. La umiliava davanti a tutti e la minacciava di farla trasferire. Spesse volte l'avevo vista piangere, tuttavia, questa sfortunata non era in grado di ribellarsi, non poteva. Si era addirittura arrivati al punto che costei, il mattino prima di recarsi al lavoro, doveva spesso passare dal mercato coperto per fargli la spesa domestica, diventando dunque suo compito recarsi in mensa per procurare il vassoio del pranzo. Una vera schiava, una povera donna con tanti, tantissimi problemi.

Qualcuno avrebbe dovuto indicarle un buon psicologo, invece, tutto è sempre andato avanti senza che nessuno sia mai intervenuto, né un collega, né la direzione infermieristica, non parliamo della direzione sanitaria. Andava bene, benissimo così, lo sfruttamento totale di una persona psicologicamente 'debole,' sotto lo sguardo di tutti, che fingevano di non vedere. Personalmente cercai di difenderla come meglio potevo le sue difese, ma l'atto fu assai controproducente. Del resto, cosa potevo aspettarmi?


"E' lei che lo vuole."  Fu l'unica risposta che ricevette. I segnali c'erano e non erano pochi. Nessuno si schierò, nessuno assunse una posizione, in nessun modo. Era così difficile, era così pericoloso? Il direttore generale sapeva come stavano le cose? Oppure era a conoscenza solo di ciò che i suoi collaboratori gli riferivano, magari non la verità ma ciò che faceva loro più comodo?

Il prototipo del perbenismo cattolico


Uno di essi, dirigente quando arrivai, rappresentava il perbenismo cattolico. Alto, con un fisico non certo atletico, spalle strette e fianchi larghi, era il classico e clamoroso esempio del perfetto prototipo ex democrazia cristiana. Religioso, con tutta la famiglia, era puntualmente presente alla messa 'grande' della domenica mattina, naturalmente per farsi notare. Era solito proclamarsi strenuo sostenitore dei diritti e della morale.

Tuttavia io ero pronto a scommettere un braccio che fosse un fanatico della pornografia, una di quelle persone che, fingendo di non guardare, spogliano le donne con gli occhi con pensieri allucinati ed allucinanti. Con le puttane non vanno non per una qualsiasi congettura morale, ma solo per paura di essere visti, portandosi dunque tra le mura domestiche pulsioni che soddisfano in solitaria  davanti ad un computer, oppure nel bagno appena pulito come uno specchio dalla loro servizievole moglie.

Incapace di prendere qualsiasi decisione, non prese mai alcuna posizione essendo della teoria di non scontentare e non inimicarsi nessuno, ma comunque capace di riversare la sua incapacità decisionale sempre su qualcun altro.

Per un puro e fortuito caso, mentre eravamo chiusi nei servizi dove si fumava furtivamente, durante una chiacchierata sulle problematiche del blocco operatorio e sui problemi di relazione con la direzione amministrativa, la sua vera indole venne a galla, ammesso e non concesso che fosse necessaria un'ulteriore prova.

Presentazione del romanzo "L'altra faccia della scimmia." Di Vincenzo Maria D'Ascanio.

“L’altra faccia della scimmia” è un romanzo ambientato in un arco di tempo che va dalle lotte studentesche degli anni 60' sino ai ...